Tutto in una notte.
Sto studiando in una specie di sala biblioteca, è giorno e ho tra le mani un libro di storia o geografia in cui c'è; una grande cartina del mondo tutta colorata, suddivisa in regioni ai tempi del secondo dopoguerra. Ogni nazione ha il nome in inglese e nella sua lingua, scritta col proprio carattere (romano, cirillico, arabo...). Mi accorgo che c'è un errore di stampa, cioè che la silhouette dell'Italia è ripetuta con colori diversi anche sull'Asia e la cosa mi stupisce e diverte molto. Accanto a me c'è Lu., una collega postina, e glielo faccio notare ridendo.
Poi usciamo con due macchine, la Cinquecento di Lu. (uno che non posso assolutamente sopportare) nella quale ci sono anche El. (la sua ragazza) e Lu., e la mia Clio, che guido io. Forse siamo nella città vicina, almeno così mi sembra; arrivo in una strada strettissima tra due muretti a secco e alberi di fico e faccio una gimkana tra un autobus, una Vespa, una voragine piena d'acqua sulla sinistra, una transenna ed evito un bidone della spazzatura per un pelo. Parcheggiamo, io più avanti e la Cinquecento ad un isolato prima e si affianca sul lato destro una Vespa blu tutta impolverata. Entra in auto Do., un ragazzo della parrocchia, che mi racconta molto animatamente come ha evitato la pozzanghera per un pelo.
Sono in chiesa durante una Messa, insieme a me ci sono mia madre, forse mio padre, mia zia Ma. e sua figlia An. Siamo su una specie di matroneo sulla sinistra dell’altare, con delle colonne e degli scalini che ci dividono dalla navata centrale; i banchi dove siamo seduti sono posti in modo strano: io e mia madre siamo su quelli rivolti verso l’altare, mia zia e mia cugina su quelli rivolti verso un finestrone sul lato sinistro. Lascio la felpa blu con la “S” e il borsello rosso su di un banco ed esco con Lu., la collega. Mi affaccio dal ballatoio e vedo Dk pesantemente truccato da donna (fondotinta, ombretto, mascara, kajal, fard), senza pizzetto, con la barba di un giorno abbondante, coi capelli ritti in testa, schiacciati ai lati e lunghi dietro (UN INCUBO! :) ). Scendo, lo abbraccio con il mio solito entusiasmo ma sento che è molto bollente, dice che ha 50 di febbre. Voglio dirgli della cartina, ma non ce la faccio perché mi interrompe parlandomi dei giochi di ruolo (dei quali nella realtà è un appassionato). Ci spostiamo verso il cancello di ingresso del cortile della chiesa, ci sediamo presso un tavolino ma veniamo letteralmente circondati da bambini e genitori. Ci sono Co. e Pe., due bambine che frequentavano il doposcuola dove lavoravo due anni fa, che mi riconoscono subito: “Sei l’amico della maestra Gillette?”, mentre mimano con le mani il gesto di radersi. Capisco che si tratta di Ro., una ex collega della scuola che le teneva in classe, non capisco però perché la chiamino Gillette. Rispondo “Eh, sì, certo!”. Dk dice che è lì per una missione di lavoro e siccome è straordinario ben pagato, allora ci deve andare anche con la febbre. Ci allontaniamo da quella bolgia e andiamo verso il parco giochi, vicino alle altalene. Gli chiedo una sigaretta, lui tira fuori un pacchetto con delle sigarette confezionate una ad una in bustine di plastica argentata tipo alluminio, con su scritto qualcosa tipo “magic smoke cannabis”, non ricordo bene. Ne apro una, la metto in bocca, leggo bene… la rimetto dentro e gliela rendo dicendo: “Chi la fumerà dopo di me prenderà un po’ del mio sapore”, parafrasando la canzone di Baglioni. Accanto a lui c’è un suo amico, Ma., che se la ride di gusto. Ci avviamo daccapo verso il cortile, ma ci viene incontro stavolta padre Ni., il parroco di quella che sembra in realtà quella chiesa, con una talare bianca e verde. Vede Dk ed esclama “Ehi, ciao Napoli”, e Dk ride, forse il prete l’ha scambiato per qualcun altro, un napoletano… boh? Mi avvicino all’ingresso della navata sinistra (che poi è a destra, l’altare è messo al contrario) a torso nudo e vedo due grandi pale di fico d’india, di un verde intensissimo, piene di fiori e frutti. Devo entrare ma provo vergogna perché sono seminudo, quindi sgattaiolo fra le colonne e riesco ad arrivare alla felpa e ad infilarmela velocemente. Il borsello è aperto e non c’è il cellulare, rovisto dappertutto tra le felpe degli altri (quasi tutte bordeaux) ma non lo trovo. La messa sembra finita, stanno andando tutti via e allora trovo il cellulare su un banco; sembra che stia squillando, invece è un altro cellulare con la stessa suoneria (impossibile… ce l’abbiamo solo in due al mondo, credo, quella suoneria… io e chi me l’ha composta!), che tra l’altro suona pure stonaticchia! Mi appare di colpo un tizio con un apparecchio ai denti, quasi calvo, con uno strano apparecchio sul viso che gli stringe la radice del naso e le tempie con quattro cerchi di plastica bianchi. Non capisco quello che dice perché c’è troppo rumore allora ci spostiamo di qualche metro; farnetica, chiede di farci coraggio e di andare a denunciare tutti insieme… e io penso “ma CHI???”. Al bancone dietro le panche mi attende Sa.Lo., chiedo cosa ci fa lì; lui sbianca in viso e dice “Fingi!” mentre si avvicina a piccoli passi un tizio alla mia sinistra, estrae un coltello a serramanico, mi afferra il braccio sinistro e comincia a tagliare con forza quasi sotto l’ascella. Credo voglia il mio cellulare, che ho nella mano sinistra. Sa.Lo. dice “Nico, finiscila!”, evidentemente conosce il tizio. Supplico di smetterla, ha già segato felpa e camicia (!!!), offro il mio cellulare… ma si è trasformato in una siringa piena di sangue. Mi lascia, la prende, ne stacca l’ago e comincia a segarlo con il coltello nel tentativo di spezzarlo. Io penso di scappare...